mercoledì 25 febbraio 2009

I nostri soldi buttati..

Ecco un articolo tratto dal Corriere.it : in tempi di crisi economica, di disoccupazione, di ristrettezze, cosa succede ? Succede che, per far fallire il referendum sulla legge elettorale, si buttino via ben 400 milioni di euro (800 miliardi delle vecchie lire !!). E' veramente un atto sconsiderato e scorretto, come sconsiderata era la legge elettorale definita "una schifezza" anche dal suo stesso ideatore. E soprattutto fatta da persone e da un partito che ogni volta dice che il popolo (del nord) è SOVRANO...e che qualche anno fa la pensava in modo diamettralmente opposto..

L'articolo:

Il 6 e 7 giugno non si terrà la consultazione sui quesiti elettorali

Referendum fuori dall'election day Vittoria leghista, costo 400 milioni

Quorum a rischio col voto la domenica dopo le Europee. Segni: presi per i fondelli. Calderoli: ne uscirebbe un sistema per noi inaccettabile

Quattrocento milioni di euro: 112 volte la somma dell'8 per mille distribuita nel 2008 alle organizzazioni di assistenza umanitaria. Ecco quanto costerà, secondo gli economisti de lavoce.info, il rifiuto di inserire il referendum elettorale tra le varie consultazioni (europee, comunali, provinciali…) raggruppate nell'election-day del 6 e 7 giugno. Risultato: ci porteranno a votare molto probabilmente tre domeniche di fila.
Obiettivo, neppure tanto segreto: stufare gli elettori e far saltare il quorum. Così da conservare la legge attuale, definita dal suo stesso ideatore «una porcata». Peccato. Peccato perché la scelta del governo di rompere finalmente con l'andazzo che per decenni aveva sparpagliato le elezioni su una infinità di date diverse era stata apprezzata, sull'uno e l'altro fronte degli schieramenti, da tutti coloro che hanno chiari due punti. Il primo: lo Stato, specialmente in questi tempi di vacche magre, deve risparmiare più soldi possibile. Il secondo: lo stillicidio di continue scadenze elettorali ha troppo spesso frenato (a volte fino alla paralisi) chi stava al governo impedendogli di muoversi senza l'ossessione di essere punito al primo esame, volta per volta cavalcato dai vincitori di turno.
Erano anni che da più parti si invocava l'election day. E anni che, a seconda delle convenienze del momento, si mettevano di traverso questo o quel partito. Finché Roberto Maroni, qualche tempo fa, aveva spiegato: «Il Consiglio dei ministri ha approvato la mia proposta: si voterà insieme per le Europee, per oltre 4000 Comuni e per 73 Province. Per fare questo abbiamo anticipato al sabato la mezza giornata di votazioni che di solito è di lunedì, sia per le Amministrative sia per le Europee».
Alleluja. Ma il referendum? Ottocentoventimila persone, 320 mila più del necessario, avevano firmato ai banchetti in piazza di Mario Segni e Giovanni Guzzetta per cambiare il «porcellum», la legge elettorale che perfino il leghista Roberto Calderoli, suo promotore, aveva definito «una porcata». E intorno alle tre idee di base (premio di maggioranza alla lista più votata alla Camera, premio di maggioranza alla lista più votata al Senato e divieto delle candidature multiple, che consentivano ai leader eletti in più collegi di optare per l'uno o per l'altro scegliendo di fatto chi fare subentrare e chi no) si erano schierati in tanti. Di destra e di sinistra. Da Arturo Parisi a Gianfranco Fini, da Stefania Prestigiacomo ad Antonio Di Pietro.
Va da sé che Mario Segni, già scottato l'anno scorso dal rinvio della consultazione deciso per la caduta del governo Prodi, l'infarto della XV legislatura e le elezioni anticipate, vive la scelta del Viminale con rabbia e sconcerto: «L'election-day il 7 giugno col Referendum sarebbe stato un'ottima cosa, ma l'election day col Referendum una settimana dopo, stretto tra la prima tornata elettorale e il secondo turno delle Amministrative la domenica seguente, è una vera presa per i fondelli». Che alla Lega non piaccia il Referendum si sa: se passassero i «sì» ai quesiti studiati da Guzzetta il Carroccio rischierebbe di esser preso in mezzo. Calderoli, un mese fa, era stato chiarissimo: «Perché dovremmo accettare un sistema che forza tutti ad entrare in due soli listoni? Berlusconi ha già difficoltà a fare il Pdl, figuriamoci se ci obbliga a entrare in un unico cartello elettorale». Quindi, patti chiari amicizia lunga: «Se qualcuno dei nostri alleati volesse sostenere quei quesiti sappia che qualcuno nella maggioranza potrebbe anche votare contro il governo».
L'obiezione formale è nota: un referendum mischiato in mezzo ad elezioni europee, comunali e provinciali rischia di «confondere» gli elettori. Risposta dei referendari: ma non è forse la destra ad additare ogni giorno a modello gli Stati Uniti d'America? Bene: in trentasei degli States, in contemporanea con le ultime presidenziali che hanno visto il trionfo di Barack Obama, gli americani hanno votato su 153 referendum. Dal matrimonio gay (in California) all'assimilazione dell'aborto all'omicidio (Colorado), dall'abrogazione del diritto all'interruzione anticipata della gravidanza (South Dakota) all'uso medico della marijuana (Michigan) fino, nello stato di Washington, al suicidio assistito.
Lo stesso Roberto Maroni del resto, quando stava all'opposizione, la pensava in maniera diversa. Basti tornare all'aprile del 2001, otto anni fa, quando l'allora premier Giuliano Amato rifiutò di abbinare le elezioni in arrivo il 13 maggio, che avrebbero visto il trionfo del Cavaliere e della sua coalizione, con il referendum sulla famosa devolution lombarda indetto da Roberto Formigoni e caro alla Lega. «Una vendetta meschina », sibilò Ignazio La Russa. «Si voterà anche a costo di sistemare dei seggi in piazza», tuonò il futuro ministro dell'Interno, «se si inventasse un rinvio illegittimo per decreto, la Regione Lombardia è pronta ad installare altri seggi e altri scrutatori per i referendum regionali, vicini a quelli delle elezioni». Altri tempi, altri interessi. Formalmente legittimi, per carità. Purché sia chiaro: collocare il referendum elettorale nella domenica in mezzo tra le Europee e i ballottaggi delle Amministrative per puntare al fallimento del quorum costerà appunto agli italiani, stando ai calcoli di lavoce. info, circa 200 milioni di euro in più di spese dirette («quanto fin qui impegnato per la social card») più altri 200 di oneri indiretti. Totale: 400 milioni. Ottanta in più di quei 322 dati nel 2008 dall'Italia, il più tirchio dei Paesi occidentali, in aiuti al Terzo Mondo.

Articolo di Gian Antonio Stella

mercoledì 18 febbraio 2009

Cosa fare adesso per l'Italia. Il dopo Walter.

Molto bello questo articolo del direttore di Repubblica, Ezio Mauro, sul giornale di oggi. Penso sia in gran parte condivisibile. Dopo le dimissioni di Walter Veltroni dalla guida del P.D., penso sia tempo di ritornare allo SPIRITO DELLE PRIMARIE, quelle che tanto entusiasmo hanno suscitato negli elettori (del P.D. e non solo) con candidati e programmi diversi. Chi otterrà più voti, deciderà la linea. Basta con correnti, correntine, distinguo ad ogni piè sospinto. L'Italia merita di più di Berlusconi. E delle divisioni.

IL COMMENTO
La responsabilità dei riformisti
di EZIO MAURO

Il Partito democratico è senza un Capo, nel momento in cui Berlusconi si riconferma leader incontrastato della destra, anzi padrone del Paese, che tiene ormai in mano come una "cosa" di sua proprietà, tra gli applausi degli italiani. Il risultato della Sardegna era atteso come un test nazionale e ha funzionato proprio in questo senso, rivelando la presa sul Paese di questa destra, che vince anche mentre attacca il Capo dello Stato, rinnega la Costituzione, offre un patto al ribasso alla Chiesa e non riesce ad affrontare la crisi economica. L'Italia sta con Berlusconi. E come conseguenza, il Pd va in frantumi. L'uscita di scena di Walter Veltroni mentre tutti i capipartito ieri gli chiedevano di restare è un gesto inusuale in un Paese di finti abbandoni, di dimissioni annunciate, di mandati "messi a disposizione": talmente inusuale che può persino essere seme di una nuova politica, dove finiscono le tutele, gli scambi, le garanzie reciproche di una "classe eterna" che si autoperpetua. Ma quelle dimissioni erano ormai obbligatorie. Il Pd trascinava se stesso nel deserto della sinistra giocando di rimessa in un'agenda politica imposta da Berlusconi, prigioniero di un senso comune altrui che non riusciva a spezzare. Il segretario - il primo segretario di un nuovo partito, dunque in qualche modo il fondatore - ha detto in questi mesi cose anche ragionevoli e giuste. Ma non è mai riuscito a spezzare l'onda alta del pensiero dominante, anche quando le idee della destra arrancavano davanti alla realtà, diventavano inadeguate, non riuscivano a mordere la crisi economica.

Il problema vero è che non c'è stato un altro pensiero in campo oltre a quello della destra, un pensiero lungo, riformista, moderno, occidentale, di una sinistra risolta che con spirito nazionale e costituzionale sappia parlare all'intero Paese, cambiandolo. Di questa insufficienza, la responsabilità è certo di Veltroni, ma la colpa è dell'intero gruppo dirigente che oggi si trova nudo ed esposto dalle dimissioni del segretario, e palesemente non sa che pesci pigliare. Dev'essere ben chiaro, infatti, che se Veltroni paga, com'è giusto, nessuno tra i molti sedicenti leader del Pd può considerarsi assolto, per due ragioni ben evidenti a tutti gli elettori. La prima, è nel gioco continuo di delegittimazione e di interdizione nei confronti di Veltroni, come se il Pd fosse riuscito nel miracolo di importare al suo interno tutti i veleni intestini e i cannibalismi con cui la destra di Dini e Mastella da un lato e la sinistra di Bertinotti e Pecoraro dall'altro avevano prima logorato e poi ucciso il governo Prodi. Con Berlusconi non solo leader ma egemone di una destra ridotta a pensiero unico, i Democratici hanno parlato sempre con mille voci che volevano via via affermare vecchie autorità declinanti e nuove identità incerte, e finivano soltanto per confondersi, imprigionando il leader e impaurendolo. La sintesi paralizzante di tutto questo è la guerra tra Veltroni e D'Alema, che nel disinteresse totale degli elettori litigano da quattro partiti (pci, pds, ds e pd), mentre nel frattempo il mondo ha fatto un giro, è nato Google, ci sono stati cinque presidenti americani e l'Inter è tornata a vincere lo scudetto. La seconda ragione è nell'incapacità del gruppo dirigente nel suo insieme di produrre una chiara cultura politica di riferimento per gli elettori, la struttura di idee di una moderna forza di progresso, la definizione di che cosa deve essere il riformismo italiano oggi. Il deficit culturale è direttamente un deficit politico. Perché come dimostra il caso Englaro le idee oggi predeterminano le scelte politiche, soprattutto in partiti che sono nati appena ieri, e dunque non hanno un portato storico, una cultura di riferimento elaborata negli anni, una struttura di pensiero a cui potersi appoggiare. Ridotto a prassi, il Pd non poteva che appiccicare le sue figurine casuali nell'album di Berlusconi, dove la prassi sostituisce la politica, l'energia prende il posto della cultura, la figura stessa del leader è il messaggio e persino il suo contesto. Ecco perché il deficit culturale diventa oggi deficit di leadership. Il progetto del Pd è rimasto un grande orizzonte annunciato: il superamento del Novecento, la fine della stagione grigia e troppo lunga del post-comunismo, l'approdo costituente e definitivo della cultura popolare irriducibile al berlusconismo, anche dopo la crisi evidente del cattolicesimo democratico, la speranza di crescita di una sinistra di governo, che coniughi finalmente davanti al Paese la rappresentanza e la responsabilità, la difesa della Costituzione e dello Stato di diritto e il cambiamento di un Paese immobile, la rottura delle sue incrostazioni e delle troppe rendite di posizione. Per fare questo serviva un partito forte ma disarmato, nuovo in quanto scalabile, aperto perché contendibile, e tuttavia presente sul territorio, nell'Italia dei comuni, in mezzo ai cittadini. Un partito forte della serenità delle sue scelte. Ci vuol tanto a spiegare che la sinistra è in ritardo nella percezione dell'insicurezza, e tuttavia è una mistificazione sostenere che questa è la prima emergenza del Paese, una mistificazione che mette in gioco la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri? È davvero così difficile sostenere che credenti e non credenti hanno a pari titolo la loro casa nel Pd, ma il partito ha tra le sue regole di fondo la separazione tra Stato e Chiesa, tra la legge del Creatore e la legge delle creature? Soprattutto, è un tabù pronunciare la parola sinistra nel Partito democratico, pur sapendo bene che socio fondatore è la Margherita, con la sua storia? Quando ciò che è al governo è "destra realizzata", anzi destra al cubo, con tre partiti tutti post-costituzionali e l'espulsione dell'anima cattolica dell'Udc, come può ciò che si oppone a tutto questo non definirsi sinistra, naturalmente del nuovo secolo, risolta, europea e riformista? Molte volte il Pd non sa cosa dire perché non sa cos'è. È stato certo una speranza, per i milioni delle primarie, per quel 33,4 per cento che l'ha votato alle politiche, segnando nelle sconfitta con Berlusconi il risultato più alto nella storia del riformismo italiano. Oggi quella speranza è in buona parte delusa e prende la via di una secessione silenziosa, cittadini che si disconnettono dal discorso pubblico, attraversano una linea che li porta in qualche modo nella clandestinità politica, convinti di poter conservare individualmente una loro identità di sinistra fuori dal "campo", pensando così di punire un intero gruppo dirigente che giudicano colpevole di aver risuscitato qualche illusione, e poi di averla tradita. Ma come dimostra il risultato di Soru, il migliore tra i possibili candidati in Sardegna, senza l'acqua della politica non si galleggia. Non è il momento della secessione individuale, della solitudine di sinistra. Berlusconi dopo il trionfo personale in Sardegna può permettersi di aggiornare la sua strategia, rinviando la scalata al Quirinale, che farà, ma più tardi. Oggi può provare a prendere ciò che gli manca dell'Italia. Napoli, la Campania. Poi portare la sfida direttamente nel cuore della sinistra del Novecento, a Bologna. Quindi pensare a Torino, magari a Firenze. Chiudere il cerchio. Per poi finalmente pensare ai giornali. Il Pd in questi mesi si è certamente opposto al governo Berlusconi, e anche a suoi singoli provvedimenti. Ma a me ha dato l'impressione di non avere l'esatta percezione della posta in gioco, che non si contende, oggi, con il normale contrasto parlamentare e televisivo di una destra normale. Qui c'è in campo qualcosa di particolare, l'esperimento di un moderno populismo europeo che coltiva in pubblico la sua anomalia sottraendosi alle leggi, sfidando le istituzioni di controllo, proponendosi come sovraordinato rispetto agli altri poteri dello Stato in nome di un rapporto mistico e sacro con gli elettori. Un'anomalia vittoriosa, che ha saputo conquistarsi il consenso di quasi tutti i media, che ha indotto un riflesso di "sazietà democratica" anche a sinistra ("il conflitto di interessi esiste ma basta, non ne posso più") che ha reso la sinistra e il Pd incapace di pronunciare il suo nome mentre non sa pronunciare il nome del suo leader: e che quindi proprio oggi, per tutte queste ragioni, può chiedere apertamente di essere "costituzionalizzata", proponendo di fatto all'intero sistema politico, istituzionale e costituzionale italiano di farsi berlusconiano. Se questa è la partita - e con ogni evidenza lo è - dovrebbero discendere comportamenti politici e scelte all'altezza della sfida. E persino del pericolo, per una sinistra di governo. Dunque il Pd, se vuole continuare ad esistere - cominciare davvero ad esistere: il partito non ha nemmeno ancora un tesseramento - deve capitalizzare le dimissioni di Veltroni, come la spia di un punto d'allarme a cui è giunto il partito, ma anche come un investimento di generosità. Deve restituire infine un nome alle cose, leggendo Berlusconi per ciò che è, un potere anomalo e vincente, che tuttavia può essere battuto, come ha fatto per due volte Prodi. La situazione è eccezionale, non fosse altro per la crisi gravissima della sinistra davanti al trionfo della destra. Si adottino misure d'eccezione. Capisco che è più comodo prendere tempo, studiarsi, far decantare le cose, misurare i pericoli di scissione, cercare una soluzione di transizione. Ma io penso che serva subito una soluzione forte e vera, la scelta di un leader per oggi e per domani o attraverso un congresso anticipato o attraverso le primarie. È in gioco la stessa idea del Partito democratico. Ci si confronti su programmi alternativi, idee diverse di partito, schemi di alleanza chiari, qualcosa di riconoscibile, che si tocca con mano, in modo che il cittadino si veda restituita una capacità reale di scelta. Quei leader che oggi dovrebbero sentirsi tutti spodestati e dimissionari, per l'incapacità dimostrata di costruire una leadership collettiva, facciano un patto pubblico di responsabilità, pronti ad accettare l'autorità del segretario e l'interesse del partito - per una volta - , invece di minacciare scissioni striscianti, veti feudali. Solo così ritroveranno quel popolo disperso che conserva comunque una certa idea dell'Italia alternativa a quella berlusconiana: e chiede per l'ultima volta di essere rappresentato.
(18 febbraio 2009)

venerdì 6 febbraio 2009

CAI: adesso il fallimento è sul campo.

La notizia era ampiamente prevista: la CAI-Alitalia, nei primi giorni di operatività, ha realizzato un load factor (coefficiente di riempimento posti) del 39 % (media Gennaio 2009: 43 %). Tradotto: gli aerei della nuova Alitalia viaggiano per più di metà VUOTI. Nel 2006 il coefficiente di riempimento era al 73,6 %, quindi il calo in tre anni è stato del 30% !! Aggiungiamo poi, come ricordava il sottosegretario alle Infrastrutture Roberto Castelli (LEGA, al governo) che i biglietti di Alitalia arrivano a costare sulla tratta MILANO-ROMA fino a 325 € in orario non di punta (!!) e che su questa importante tratta ALITALIA ha il monopolio (in deroga all'Antitrust). Ebbene, la frittata è fatta. Il problema che le uova (d'oro, leggasi 4 miliardi di euro) le hanno pagate i contribuenti italiani....
Visto che i giornali italiani non sono molto "loquaci" su questa vicenda, vi rimando al sito dove questa notizia è stata trovata:

http://www.inviatospeciale.com/2009/02/colaninno-sabelli-e-gli-aerei-vuoti/

mercoledì 4 febbraio 2009

Belli per essere rustici..

Sembra incredibile. Ho dovuto rileggere la notizia due volte, perchè non ci credevo. L'assessore è Massimo Ponzoni, plenipotenziario in Brianza per Forza Italia. In sintesi: hanno costruito ben 2 villette abusive nel cuore di un terreno agricolo a CESANO MADERNO, Brianza centrale (già abbastanza cementificata) intestate alla moglie e al cognato. La cosa ridicola (meglio ridere per non piangere) è che Ponzoni è uomo di punta di Forza Italia nonchè ASSESSORE ALL'AMBIENTE della REGIONE LOMBARDIA. Forse lo promuoveranno ASSESSORE ALL'ABUSIVISMO EDILIZIO, oppure faranno una bella legge per condonare il tutto. Si sa, da quelle parti si usa così.

La notizia dal sito AFFARI ITALIANI.IT

Lombardia/ L'assessore Massimo Ponzoni condannato dal Tar: deve abbattere due sue ville abusive

Mercoledí 04.02.2009 09:11

L'assessore all'Ambiente della Lombardia costretto ad abbattere le sue case abusive. Può apparire paradossale ma è proprio così: Massimo Ponzoni di Forza Italia è stato condannato dal Tar della Lombardia ad abbattere due villette abusive perché costruite su un terreno agricolo non edificabile a Cesano Maderno. La prima intestata alla moglie Annamaria Cocozza. La seconda abitata dal cognato Argenio Cocozza e dalla suocera Maria Cacioppo. L'assessore della giunta Formigoni, si legge su la Repubblica, preferisce non commentare. Una vittoria del sindaco di Cesano Maderno, Paolo Vaghi, alla guida di una giunta di centrosinistra "anomala", sostenuta anche da alcuni consiglieri comunali ciellini, che il 28 ottobre 2008 aveva firmato un'ordinanza in cui ingiungeva la demolizione dell'immobile. "La legge deve essere uguale per tutti - commenta ora soddisfatto - Chi ha commesso un abuso edilizio deve essere punito, chiunque esso sia. La legge deve essere uguale per tutti". Poi aggiunge sarcastico: "È come se l'a llora ministro dei trasporti Enrico Ferri, quello dei 110 chilometri all'ora, fosse stato pizzicato sfrecciare a 180 o come quei parlamentari che in aula si dichiarano contro la droga, ma poi si scopre che sniffano la cocaina".
La sentenza del Tar, che ha respinto la richiesta di sospensione della demolizione presentata dai familiari di Ponzoni, lancia anche accuse pesanti. Per esempio che "la domanda dei ricorrenti è stata correttamente rigettata in quanto dolosamente infedeli in ordine alla data di ultimazione dei lavori, come riscontrato dalle fotografie allegate agli atti". Tanto che il tribunale amministrativo ha deciso non solo di condannare la moglie, il cognato e la suocera dell'assessore lombardo all'ambiente in solido al pagamento delle spese processuali, ma di trasmettere gli atti alla procura della Repubblica di Monza.